oggi, cent’anni fa. 24 maggio 1915.
a bottenico, appena fuori da cividale, il soldato aurelio viene svegliato nel cuore della notte a cavallo fra ieri e oggi, a mezzanotte.
la tromba suona l’allarme.
taratà taratà.
da un soldato all’altro:
*è guerra*
*è stata dichiarata la guerra*
*la guerra?*
*siamo in guerra*
l’aurelio baruzzi (in questo articolo dell’atroieri ne linko un ritratto) pensa alla famiglia a lugo, alle chiacchiere sotto il porticato del pavaglione, il suo arruolamento volontario, il silenzio accigliato del padre, le lacrime della madre.
ricorda che a savona non si trovava un’uniforme che gli stesse abbastanza stretta perché anche le taglie più minute gli ballavano addosso.
la marcia verso bottenico e poi cividale e poi verso il confine è lentissima, interrotta di continuo dal passaggio dei reparti celeri, i bersaglieri in bicicletta che devono raggiungere il confine ed esplorare. in un’ora di marcia il baruzzi e la sua compagnia hanno percorso appena un cholometro e sono entrati a bottenico; cividale è ancora laggiù.
sosta per il rancio in riva al natisone, dove qualcuno osa un tuffo gelato nell’acqua che scende dai nevai che si sciolgono in carnia.
di capannello in capannello girano le informazioni, forse vere, forse false: gli alpini hanno preso il monte stol, in avanzata verso saga. i bersaglieri sono scesi dal mataiur e avanzano verso caporetto.
borghesi di cividale passano sulla strada e lanciano aggiornamenti: gli austriaci si danno prigionieri a schiere intere; e i fanti si allungano lungo la strada per vedere sfilare queste centinaia, migliaia di prigionieri austriaci. fa buio e non se n’è visto passare nemmeno uno.
il 24 maggio 1915 è il giorno del piave, per noi di cent’anni dopo, per via della canzoncina, qui in una versione d’epoca fascista.
il piave mormorava calmo e placido al pas-sag-gio
dei primi fanti il ventiquattro mag-gio
l’esercito marciava per raggiunger la fron-tie-ra
per far contro il nemico una ba-rie-ra.
così la cantiamo, scandendo bene le sillabe finali di ogni verso.
noi la chiamiamo il piave mormorava, o il piave mormorò, ma la canzone s’intitola la leggenda del piave, ed è stata composta da un impiegato napoletano, giovanni gaeta, preoccupantemente repubblicano.
eggià, oggi nel 1915 i repubblicani sono come i blackbloc di cent’anni dopo; sobillatori pericolosi dell’ordine costituito che insieme con gli anarchici mettono le bombe sotto le carrozze dei re o tirano pistolate e accoppano re umberto, come fece il gaetano bresci a monza, o l’arciduca francesco ferdinando, come fece un anno fa a seraievo il gavrilo prinzip (clicca qui per leggere il mio articolo da seraievo).
repubblicano sì, ma patriota fervente, e tra due anni il gaeta lascerà il suo ufficio per arruolarsi nei vagoni postali delle tradotte che portano i fanti verso il fronte del piave, e i morti e feriti indietro.
vorrà vedere il fronte del piave, per questo s’arruolerà, e cantare quel fiume eroico.
non sa una mazza di musica, il giovanni gaeta, ma riesce a comporre testi e musiche a orecchio con l’arte dell’improvvisazione.
tra due anni, quando la gente si massacrerà sul piave, scriverà la leggenda del piave; e si stupirà come la sua canzonetta correrà di bocca in bocca, sarà la colonna sonora della vittoria.
però lui repubblicano e segnalato dalle questure non vuole scoprirsi, e quindi sceglierà uno pseudonimo: e.a.mario, come l’eroico repubblicano alberto mario del risorgimento mazziniano.
i reali carabinieri saranno sguinzagiati per tutt’italia alla ricerca di questo e.a.mario, autore di cotanta patriottica canzone.
lo troveranno, e lo porteranno davanti al re, vittorio emanuele.
il re chiederà a gaeta: perché questo pseudonimo?
e giovanni gaeta, con l’onesta schiettezza dei repubblicani d’un tempo: facile, maestà: sono repubblicano.
scenderà un attimo di gelo, qualche petto immedagliato tremerà d’indignazione. ma poi il re interromperà l’imparazzo e con un sorriso dirà al sobillatore patriottico: da sempre i repubblicani sono stati fedeli servitori del paese. intanto la prego di accettare, come ricordo di questo incontro, l’ordine della commenda.
oggi intanto edgardo rossaro, pittore vercellese che fa arte a firenze (in questo articolo dell’atroieri ne linko un ritratto), dopo il suo comizio improvvisato di ieri al caffè giubbe rosse (che racconto qui) stamane presto ha riempito lo zaino con mutandoni di lana, calzettoni e altri indumenti da freddo delle alpi; a santa maria novella sale su un treno diretto a venezia. sceglie uno scompartimento di prima classe, così per sfizio.
a padova, e poi in stazione a vicenza dove deve aspettare la coincidenza per pieve di cadore, molti guardano male l’edgardo rossaro.
devi immaginartelo.
magro allampanato, l’espressione visionaria, occhiali imponenti, cappellaccio tirolese, vestiti di vellutone verde, barba rossiccia.
dev’essere un tedesco.
sisì, una spia tedesca.
il capotreno gli chiede i documenti.
poi un caporale lo ferma e lo trascina in caserma, dove lo attendono un capitano con sciarpa azzurra e contorno di ufficiali.
lei chi è?
ma come? sono rossaro, il pittore!
favorisca i suoi documenti.
ma… ma lei è davvero italiano?
ma, credo proprio di sì.
e allora, caro il mio pittore, ascolti il muo consiglio: si rada quella barbaccia, via gli occhiali e si vesta in modo diverso, perché così lei sembra un herr professor.
capitano, grazie del consiglio, ma fra poche ore indosserò il cappello da alpino e l’uniforme più consoni ai tempi, ai suoi e ai miei gusti.
questa sera rossaro arriverà a belluno.