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era l’ottobre 2012 quando il ministro dell’ambiente (governo monti, ministro corrado clini) impose all’ilva della famiglia riva un piano di risanamento che avrebbe trasformato l’acciaieria di taranto in un modello che avrebbe fatto scuola nel mondo globalizzato della siderurgia.
l’ilva era stata costretta a ottenere in tre anni, cioè entro l’ottobre 2015 da poco passato, un minore impatto ambientale con l’utilizzo di nuove tecnologie e nuovi processi produttivi.
l’azienda era ancora sana, la contabilità parlava di un patrimonio generoso sui 4 miliardi, l’acciaieria produceva a piena manetta acciaio e fatturato.
l’investimento ambientale imposto dall’autorizzazione ambientale aia avrebbe azzerato gli utili per qualche anno, ma le spalle dell’azienda erano abbastanza larghe per poter gestire la trasformazione.
ai primi interventi le centraline dell’arpa puglia registrarono timidi e misurabili effetti ambientali nell’aria della città sulla quale si erano accumulati inquinanti che non si dìssipano con il tempo, come il mezzo secolo di fumi alla diossina o come l’amianto diffuso per un secolo sulla città dai cantieri navali quando non si sapeva che quel minerale può sviluppare un cancro terribile che non lascia scampo, il mesotelioma pleurico.
passarono pochi giorni e la magistratura di taranto a colpi di sequestri cominciò a ostacolare in ogni modo il processo di risanamento ambientale.
nel giugno del 2013 (governo letta, ministro dell’ambiente andrea orlando) ci fu il primo commissariamento. alcuni pensavano che una nazionalizzazione non esplicita, un esproprio senza indennizzo, avrebbe risolto la situazione.
la proprietà delle azioni è rimasta alla famiglia Riva in via virtuale, la gestione è passata allo stato.
così con gradualità l’azienda, diventata di nessuno, ha rallentato gli investimenti e ha perso…