(l’immagine qui sopra mostra lo smarrimento di uno sconfitto ufficiale nazista davanti all’apertura di un lager. il suo mondo osceno di morte gli appare com’è nella realtà, privo di alcun valore).
non mi piacciono le parole scioà oppure olocausto. non mi piacciono le rievocazioni a date fisse. la lagrima a comando: “ora, piangere!”.
sui giornali, alla tv e sui social network all’avvicinarsi del 27 gennaio (giorno della memoria) riappaiono le immagini in bianco e nero di quell’evento.
in una di queste rievocazioni ho letto l’altro giorno la citazione di treblinka.
un nome che fino a qualche giorno fa non mi diceva molto, sapevo che era uno dei campi di concentramento nazista.
treblinka.
quindi ho letto qualcosa per capirne di più.
uno sterminificio
ho appreso che treblinka non era un campo di concentramento.
almeno, come siamo soliti intenderlo noi, noi che viviamo nel mondo a colori.
a differenza di auschwitz – che era un insieme di più tipologie di campi (per prigionieri di guerra, di sterminio, di lavoro e così via) – invece treblinka con sobibor e pochi altri campi era uno sterminificio. non altro.
a treblinka non venivano alloggiati prigionieri. non le file di baracche brulicanti di disperazione.
non c’era quell’umanità dolente con la casacca sformata, il berretto di tela sul cranio rasato, con lo sguardo vuoto come nelle foto che ci sono state tramandate.
non c’erano sopravvissuti.
non c’era la selezione tra salvati e persi, tu di qua e tu di là.
non il numero tatuato sul braccio.
a treblinka, no.
arrivavano migliaia di persone al giorno, e in un paio d’ore venivano uccise tutte e sepolte, oppure uccise tutte e bruciate.
vita, persone, carne, sogni, paure, dolori, amori, speranze entravano a migliaia ogni giorno e tutti subito venivano cancellati dall’esistenza e buttati via.
temporary slaughter
treblinka fu uno sterminificio temporaneo. una strage a tempo.
il campo fece la strage in poco più di un anno, dall’estate 1942 all’autunno 1943, appena il tempo per industrializzare l’assassinio di un milione di persone. oppure 1,2 milioni, oppure 700mila, oppure 900mila.
c’era un problema.
(mi fa schifo scrivere le parole “un problema” per definire il modo di ammazzare le persone in modo seriale).
per gli arroganti vigliacchi nazisti il problema era che i soldati e le ss uccidevano gli ebrei a uno a uno, con stragi e fucilazioni la cui velocità di omicidio era ritenuta troppo bassa e faticosa, un impegno davvero frustrante; volevano che fosse abbandonato l’artigianato dell’omicidio e volevano industrializzare la strage.
in questo articolo spiego che cosa pensavano i tedeschi mentre ammazzavano a uno a uno gli ebrei (clicca qui).
per questo motivo dal 1941-1942 furono allestiti alcuni campi di sterminio.
uno dei primi fu treblinka, fra i boschi paludosi della masovia in polonia.
raggiunto il risultato di cancellare gli ebrei di polonia e lituania (e migliaia di altre persone di altre comunità diverse da quella ebraica), il campo di treblinka finì il suo lavoro schifoso, fu smantellato, spianato, seminato e piantumato.
un anno dopo arrivarono i sovietici e non videro nulla, il macello di treblinka era un angolo di campagna uguale al resto della campagna polacca.
come funzionava treblinka
alcuni vagoni del lungo convoglio arrivavano sulla banchina ferroviaria.
si sblindavano i carri merci e venivano aperti i portelli; uscivano alcune migliaia di persone sfiancate da giorni di viaggio in piedi senza né mangiare né bere. un’orchestrina suonava drei lilien, tre gigli. ecco la canzontta drei lilien.
pareva una stazioncina ferroviaria di campagna. la gente – 2mila o 3mila persone o anche di più secondo il numero di vagoni – la gente veniva spinta nel piazzale adiacente per spogliarsi completamente, schnell,
consegnare documenti valigie e vestiti,
avanti avanti, frustate, avanti per le docce, bastonate muoversi, raus,
le donne passavano nel capannone della rasatura a zero,
fuori fuori, avanti correre per le docce, e poi camminavano tutti insieme tra due muri alti di legno da cui non si vedeva niente fuori solo il cielo,
avanti bagno e disinfezione, spingi, muoversi avanti, bastonate, spinti in avanti,
poi un edificio con il portone aperto, dicono che sono i bagni,
avanti muoversi, spingi,
entravano nell’edificio,
uno stanzone piastrellato, con le piastrelle da bagno,
sempre più calca nella stanza, pieno di persone nude, a gomito a gomito, avanti spingi, non ci si sta più così stretti,
chiudono la porta, si accende un motore diesel fuori dalla stanza, il puzzo del gasolio bruciato, non si respira, il fumo del gasolio, la gente urla a centinaia, il terrore,
dopo venti minuti sono morti tutti
con una ridicola faccia rossa color ciliegia
come fa il monossido di carbonio
e la smorfia della morte sulla bocca.
si apriva il portellone sul retro e si arieggiava.
ebrei con la casacca degli schiavi entravano nel camerone piastrellato e tiravano fuori i corpi;
lavare dal pavimento la merda e il piscio,
un dito in bocca e un dito nel culo e un dito davanti alle donne per vedere se avevano nascosto gioielli anelli;
e poi i “dentisti”, schiavi con le tenaglie aprivano le bocche sconciate e strappavano i denti d’oro.
e i corpi erano gettati sui carrelli da miniera, scarrellavano fino alla fossa comune, oppure fino all’immensa pira fatta intrecciando binari di treno, dove bruciava continuo un fuoco immondo di 3mila cadaveri che scoppiavano e si contorcevano sulle fiamme.
si chiudeva il portellone sul dietro dello stanzone appena lavato, che sul davanti già premeva alle porte la nuova folla nuda, schnell schnell, frustate e bastonate, si apriva il portellone d’ingresso, spingi entravano nell’edificio, nello stanzone piastrellato come un bagno sempre più calca nella stanza.
e nello stesso momento altra gente aveva appena consegnato i documenti, si stava spogliando e veniva rasata.
e nello stesso momento i vagoni vuoti liberavano la banchina per lasciar entrare altri vagoni del convoglio pieni di persone.
ventimila persone al giorno.
non si sa quanti siano stati uccisi perché non se ne teneva il conto.
non i registri su cui annotare nomi. entravano e venivano dissolti subito.
ci furono crudeltà e sadismi terribili, come quelle di sepp, specializzato in bambini. pescava un bambino a caso, lo brandiva come una clava e gli sbatteva la testa per terra, oppure gli spezzava la schiena.
stumpfe, un ragazzone, rideva e rideva ogni volta che accoppava qualcuno. e amava ridere spesso.
sviderskij, volksdeutscher di odessa, come le gare di chi beve più bicchierini di vodka in un minuto, ma lui invece faceva la gara di quanti bambini riusciva a uccidere fracassando loro la testa con un martello; il suo primato era 15 bambini in un minuto.
quando i treni portarono i ribelli catturati dopo la rivolta armata del ghetto di varsavia, sceglievano donne e bambini e, invece di portarli alle camere a gas li portavano davanti alle graticole e costringevano le madri impazzite dall’orrore a mostrare ai figli le griglie incandescenti dove, tra le fiamme e il fuoco, i corpi si accartocciavano a migliaia, dove i morti parevano riprendere vita e contorcersi, dimenarsi; dove ai cadaveri delle donne incinte scoppiava il ventre e quei bambini morti ancora prima di nascere bruciavano tra le viscere aperte delle loro madri.
la beffa della morte
molti sono rimasti colpiti dagli aspetti quasi offensivi di alcuni dettagli del mortificio di treblinka.
alla banchina dove c’era il binario era stata allestita una finta stazioncina, con falsi tabelloni degli orari, con la falsa biglietteria e il falso controllore che chiedeva alla folla chi avesse il biglietto. un grande orologio ferroviario sulla facciata indicava, fermo, le sei in punto.
e l’orchestrina di suonatori in giacca e camicia, quella canzone drei lilien.
gli altoparlanti urlavano che era una sosta intermedia, le persone saranno rifocillate e poi ripartiranno verso altri campi, ma presto presto muoversi.
spogliarsi per le docce, i documenti saranno riconsegnati dopo, rasatura sanitaria.
sempre in fretta, senza dare il tempo di pensare, sempre spinti, sempre avanti.
poi il corridoio di due steccati altissimi, che lasciava vedere solamente in alto il cielo, con un andamento curvo che non si vedesse dove finiva; e finiva addosso a un edificio basso, piastrellato con le stesse piastrelle dei bagni rituali ebraici, cioè piastrelle marcate con la stella di davide.
molti affermano che ciò fosse per un’ennesima beffa crudele.
forse la beffa più crudele di tutte.
a me, invece, la beffa scandalizza poco; l’offesa è nulla di fronte all’altro aspetto, cioè l’assassinio industrializzato.
penso che questa che viene percepita come un’ironia oscena fosse funzionale a evitare rivolte: così poche decine di persone possono controllare in modo semplice e sicuro migliaia di persone costrette a correre nude fra due staccionate verso un non-sanno-che-cosa.
un giorno giunse anche un convoglio di zingari della bessarabia: duecento uomini e ottocento tra donne e bambini arrivarono a piedi con un seguito di carri e cavalli; i nazisti avevano ingannato anche loro, e quel migliaio di persone si presentò scortato soltanto da due guardie che, loro per prime, non sapevano di condurli a morire. le zingare batterono le mani entusiaste alla vista dell’edificio che pensavano dei bagni, e che invece erano camere a gas.
ecco, io non sono né uno storico né un esperto ma a mio parere questa cerimonia beffarda serviva non a ridere dei morti bensì a rendere più facile l’orrendo stragificio.
animali
diversi vegani (io non lo sono) hanno paragonato i macelli per animali con treblinka.
parrà forse offensivo a chi è legato al milione di persone massacrate, ma per certi versi concordo con chi vi intuisce un parallelo.
nei macelli del bestiame, gli animali sono spinti nella fretta e nelle bastonate verso il corridoio senza uscita; viene negata agli animali senza nome la consapevolezza di ciò che sta per accadere loro.
ma a differenza di quei vegani che vedono una similitudine fra treblinka e i macelli, come se i macelli fossero ispirati all’esperienza di treblinka, io vi intuisco il contrario; cioè a mio parere treblinka fu organizzata ispirandosi a come è organizzato un macello.
senza onore
una volta, a quei tempi, non si sapeva. gli ebrei venivano arrestati e chissà.
nel ’43, nel ’44 e nel ’45 chi allora era giovane e con il sangue caldo e la testa infarcita di stupidate poteva non sapere che cos’accadeva lontano dai suoi occhi. certo c’erano le leggi razziali, i bombardieri inglesi e statunitensi spianavano le città italiane e mitragliavano i treni, e i ribelli i partigiani in montagna, e bisognava arrestare gli ebrei.
chi c’era allora non sapeva che sotto l’erba di treblinka sarebbero state ritrovate le piastrelle con la stella di davide che ricoprivano le camere a gas.
ma oggi si sa. oggi è una figuretta cartonata senza dignità che non merita alcun rispetto chi oggi si esalta del nazismo, chi oggi espone la svastica del disonore o alza il braccio nel saluto della vergogna, chi asserisce la frase del vile “ma ha fatto anche cose buone”, chi dice quando c’era lui, chi oggi si convince che queste storie oscene in bianco e nero non sono esistite.