(e fanculo alla distrazione del cristoforo ivanovich, che quando ha scritto la minerva le sbagliava a-tutta-randa).
finalmente l’altra sera a cremona, teatro ponchielli (sociorum concordia erexit), con il ritorno di ulisse in patria è ritornato a casa sua il vero claudio monteverdi, quel claudio monteverdi che un anno e mezzo prima, nel 1638, nella prefazione all’ottavo libro aveva spiegato: la musica deve integrarsi con il testo e deve corrispondere al contenuto del testo.
il testo in questo caso è di giacomo (o iacopo) badoer, dei nobilissimi e schifosamente ricchi badoer, che scriveva i libretti d’opera e i madrigaletti per diletto e non per soldi, e che era davvero bravissimo.
è stato lui, il badoer, a intuire quella frase *un bel tacer non fu mai scritto* che continua a essere rimestata ancora oggi.
(da il ritorno d’ulisse in patria, atto v, scena viii: un bel tacer mai scritto fu).
poi racconto meglio. ora il contesto.
al ponchielli di cremona è cominciato il consueto festival monteverdiano (il monty era cremonese, poi era andato a lavorare per i gonzaga a mantova e infine si era trasferito a venezia).
venerdì 17 giugno è stato dato il ritorno di ulisse in patria, tragedia di lieto fine in un prologo e tre atti (qui riorganizzata in due atti), poesia di giacomo badoer, musica di claudio monteverdi, data al san giovanni e paolo nella stagione del carnevale 1639-1640.
la prossima recita sarà venerdì 24 giugno alle ore 20, clicca qui per saperne di più, affrèttati a comprare i biglietti cliccando qui, prezzi dai 30 ai 45 euri.
consiglio: comprali subito. vale la pena.
questa edizione critica è curata da bernardo ticci, bte bernardo ticci edizioni, 2021.
(l’edizione critica deve essere stata una faticaccia. più che altro, sovrapporre il rigo musicale, tre atti, con il libretto, cinque atti. testo e musica non corrispondono per una cippa. ma sarà la musica giusta? ma sarà davvero quella, l’opera di monteverdi? ne accennerò più sotto).
maestro concertatore e direttore ottavio dantone, bravo bravo bravo!
con l’accademia bizantina – bravi bravi braviii!
regia, scene, luci e video di luigi de angelis, molto interessante (però non sempre di mio gusto, ma io sono un vecchio barbogio), allineato con le tendenze di parte dell’arte contemporanea (vi ho intraletto spunti dalle corderie della biennale 2019 e qualcosa anche dell’edizione 2022, ma io sono un vecchio barbagianni).
le voci. cantanti tutti giovani, voci strepitose.
ulisse, un tostissimo mauro borgioni fra il baritono e il tenore.
telemaco bravo! anicio zorzi giustiniani.
penelope: la finissima delphine galou.
iro il mendicante matto e famolento: bruno taddia, ha preso dose doppia di applausi.
il tempo e antinoo: roberto lorenzi – che pare un basso russo.
un po’ di divinità e di prologhi: giunone raffaella milanesi, amore paola valentina molinari, la fortuna vittoria magnarello.
a pettorali oliati glitterati e palestrati: giove, gianluca margheri, e nettuno, federico domenico eraldo sacchi.
minerva, giuseppina bridelli; ottima.
due proci: anfinomo è francisco fernandez rueda e pisandro è enrico torre.
melanto e l’humana fragilità: gaia petrone, vivacissima e strepitosa.
eurimaco, il tenore alessio tosi, agilità musicale e fisica (come scavalca il palco di proscenio, nessuno come lui).
eumete il pastore, luigi morassi, potente.
ericlea (un bel tacer mai scritto fu) anna bessi
costumi e drammaturgia chiara lagani; assistente alla regia andrea argentieri.
progetto e compagnia fanny&alexander.
hanno collaborato i ragazzi dell’artistico stradivari per decorazioni e scene (docenti coordinatori
ferdinando ardigò, renato cappelli, mauro la rosa, gabriele gaimari, pennisi francesco, vera lazzarini, chiara d’aureli), la classe 4°a (scenografia) con i ragazzi bolda luca, gerevini luigi, molinari nicole, novembrini irene, pastori laura, tutu eduard costantin, la classe 3°b (grafica) con i ragazzi agwu chinedu francesco elia, bisoc alexandra delia, bodini viola, canzonieri pietro mattia, cappelli marta, corbari alice, dovara lorenzo, ferrari lorenzo, malellari amarildo, narjaku alessandra, odionye princess chiemezuo, ommeniello greta, parmigiani alessia, passariello luca, restelli andrea, scotti nicole.
i bersagli di tirassegno sono di giovanni mori.
dunque, iersera a cremona ho ritrovato monteverdi, quello vero.
ora, un secolo fa i musicologi (e io non lo sono) si divisero fra i monteverdiani e non-monteverdiani, secondo i quali ciò che noi chiamiamo l’ulisse di monteverdi non sarebbe di monteverdi ma di chissà quale mai altro compositore.
tantopiù che dell’ulisse di monteverdi ci sono tracce labilissime, cenni musicali molto riassuntivi. c’è appena il tema del canto e il basso d’accompagnamento.
e basta.
tutta la strumentazione variata e colorita che sentiamo oggi con cornette, tiorbe e arciliuti, organi portativi, gambe e brazzi eccetera è tutto arrangiamento moderno ispirato.
(per intenderci, undici anni dopo, nel 1651, il francesco cavalli per dare la calisto al sant’aponal aveva messo in teatro un’orchestra di 4-musicisti-4, come un quartetto jazz o un complesso rock: violino, viola, basso, batteria).
allora, chi compose l’ulisse? io dal basso della mia inesperienza di non-musicologo sentenzio: sì, l’ulisse è di monteverdi.
è proprio lui.
occhèi, i brontoloni diranno che il testo musicale di un prologo e tre atti conservato a vienna (il poverissimo rigo) non corrisponde al testo poetico di badoer disponibile in una dozzina di copie.
però, sì: l’ulisse è un’opera fatta non ancora a opera; è un seguirsi di frottole e madrigali monteverdiani; è lo sviluppo estremo e terminale di un percorso cominciato a mantova con l’orfeo.
ci sento tutta la mano del monty.
di più. ci sento la mano del Grande Vecchio che si sperimenta in un genere per lui nuovo, un genere che non capisce ancora. l’opera lirica che per i tre secoli successivi avrebbe riempito i teatri. lui, quel genere l’aveva inventato con l’orfeo a mantova, e sempre lui nell’ottavo libro aveva messo in scena per inviti privati il combattimento nel cortile di palazzo mocenigo di san stae (oggi c’è il museo del costume e del profumo).
ma il monty era omai il passato, il Grande Vecchio, e le opere liriche che si davano a venezia al san cassiano, e al san giovanni e paolo, e al san moisè, e al san gio:grisostomo erano già da un’altra parte, erano ormai un genere fatto da altri gusti musicali, da altro popolo, da altri impresari e altri compositori.
l’ulisse è l’atto sublime del grande madrigalista che, ormai vecchio e famosissimo, idolatrato dalle folle canore, si sperimenta anche lui nel genere dell’opera lirica per teatro a bigliettazione; ma fa ancora il verso al vecchio monty e allinea nel teatro una sequenza di madrigali e madrigaletti.
(invece l’incoronazione, fanculo a quel babbeo dell’ivanovich che ha infarcito di errori la sua minerva, i musicologi non me la danno a bere: l’incoronazione non è di monteverdi; è di benedetto ferrari).
(il cristoforo ivanovich da budua, città dell’albania veneta, nella minerva a tavolino aveva attribuito a monteverdi l’incoronazione di poppea.
e da allora, tutti in coro a dire che l’incoronazione è di monteverdi, anche se è un’opera non-monteverdiana, è già un’opera del gusto nuovo, di corsa verso francesco cavalli. ma l’ivanovich ha scritto un sacco di fesserie, t. walker, gli errori di *minerva al tavolino*: osservazioni sulla cronologia delle prime opere veneziane, venezia e il melodramma nel seicento, venezia, 1972).
il ritorno di ulisse in patria
note di regia di luigi de angelis
da quando mi è stato chiesto di mettere in scena il ritorno di ulisse in patria, non ho potuto fare a meno di tornare più volte su un ricordo denso dei tempi dell’università a bologna. con chiara lagani – cofondatrice di fanny & alexander, che cura la drammaturgia e i costumi di quest’opera – abbiamo avuto la fortuna incredibile di seguire le lezioni di uno dei più grandi geografi del nostro tempo, franco farinelli. il suo corso monografico ruotava attorno alla decostruzione e lettura filosofica del mito di ulisse, facendone il prototipo dell’eroe moderno precursore ed emblema dell’avvento di un nuovo mondo, di fatto della modernità.
ulisse, diceva farinelli, è l’eroe che acceca polifemo nella caverna, al contrario espressione di un mondo arcaico, governato da gerarchie tattili, verticali, affettive. ulisse è invece l’uomo del calcolo, della menzogna, dell’inganno, utilizza una falsa identità per i propri calcoli. farinelli dice che nell’incontro nella caverna tra ulisse e polifemo c’è la chiave dell’avvento della modernità…
ulisse si identifica con polifemo col nome di “outis”, “nessuno”, per cui quando polifemo chiede agli altri giganti di aiutarlo a catturare “nessuno”, non riceve – ovviamente – aiuto… acceca polifemo e per sfuggire alla sua rabbia cieca si nasconde sotto il montone capobranco. il soggetto del nostro mito, ulisse, l’eroe, si mette sotto alla pancia del montone, sapendo che polifemo istintivamente non può che utilizzare la sua conoscenza del mondo fatta di tattilità per identificarlo; si fa “sub-iectum”, colui che si sottrae e si mette sotto (da “sub-icere”.) …
è una strategia vincente, ma allo stesso tempo comporta un annullamento identitario.
è il paradosso di ulisse, per “essere” deve annullare la propria identità, essere “nessuno”, non può più essere riconosciuto, ed è la sua dannazione, anche quando torna a casa, in cui nessuno lo riconosce, né il figlio, né la moglie, né il pastore eumete. lui stesso non riconosce itaca, quando i feaci lo abbandonano sulla spiaggia. solo ericlea, l’ancella che l’aveva accudito da bambino, lavandolo, “toccando” la sua gamba riconosce la cicatrice procuratagli da un cinghiale da bambino. ulisse utilizza il calcolo, è capace di misurare lo spazio e il suo tempo di percorrenza, applicare la logica di uno spazio omogeneo, rispetto alle striature e incongruenze di un mondo antico dove lo spazio non esiste perché non è commensurabile. ulisse inventa l’idea di spazio moderno, divisibile, misurabile, è il prototipo dell’uomo moderno che antepone alla lettura del mondo l’immagine del mondo, un progetto da anteporre all’esperienza diretta del mondo. il suo mito sembra quasi un monito all’intossicazione contemporanea per le immagini, per cui la “facilità” delle immagini, per dirla con james hillmann, è quella di superficie, di “facciata” (dal latino facies), ma non ha a che fare col vero vedere, connesso col cuore, con una logica non omogenea delle relazioni spaziali e vitali. ulisse per vedere e prefigurare deve “scomparire”, perdere l’identità, assumere la postura di un eroe fragile, errare per 20 anni, ritrovarsi mendicante, rischiare di perdere gli affetti, in qualche modo per sopravvivere deve disconnettersi dalla realtà, nascondersi dietro al progetto. minerva, nell’idea che i greci avevano del politeismo, è espressione di una sua parte profonda, combattiva e calcolatrice, vendicativa.
tutta l’opera converge fin dall’inizio verso la scena cruciale, quella dell’uccisione dei proci, verso la prova dell’arco, in cui ulisse sarà l’unico a riuscire a tendere l’arco e a uccidere tutti i proci, compiendo un eccidio che oggi avrebbe il sapore delle stragi nei luoghi pubblici (ad esempio negli stati uniti) spesso sulle cronache dei nostri giorni. mettere in scena ulisse oggi non può non voler dire confrontarsi con l’idea ossessiva di questa scena, con l’idea che tutto oggi è in qualche modo “bersaglio”, sotto minaccia costante. tutto oggi è “target”, bersaglio di una prospettiva di mercato e di consumo, che non prevede l’eccezione, l’incongruo, l’inciampo o una logica che non preveda la monetizzazione valoriale, estetica, cosmetica. tutto deve essere incasellabile, spendibile, deve poter circolare velocemente, essere consumato e riconosciuto secondo la logica del target. tutto tende al parossismo di un vortice in cui la logica della guerra sembra l’apice naturale di una prospettiva
gli dei sono morti, non sono più riconoscibili, sopravvivono forse in qualche bella pubblicità, rimangono le loro forme, i loro segni, le loro spore invisibili, relegate a merce di consumo, a pura estetica. sono essi stessi bersaglio, “target”, non si esprimono più se non per simboli privi di carica vitale. non sono più connessi con l’uomo, ma sono condannati alla bidimensionalità, a compiere gesti vuoti e a circolare ormai come moneta e a essere invisibili.
il ritorno di ulisse in patria è un’opera di sconvolgente modernità perché attraversa temi a noi molto vicini, dalla ferita che non si rimargina di penelope, rintanata nel loop tossico dell’abbandono, che si nutre di un dolore profondo, ma che non è capace di superare e elaborare la separazione, alla sindrome di telemaco, figlio orfano del padre, a ulisse, l’eroe condannato a non essere riconosciuto da nessuno, proprio nei giorni del suo ritorno in patria… sempre qualcun’altro deve garantire per lui. la partitura di quest’opera meravigliosa e sperimentale ci offre molteplici piani di lettura e ci proietta in un vero e proprio viaggio emozionale, con un andamento quasi cinematografico, con cambi di scena e di narrazione repentini, serrati, in cui la musica riflette il carattere variegato delle molteplici variazioni della vicenda, con pagine che sembrano scritte nel ‘900.
portarla in scena a cremona significa confrontarsi con l’architettura straordinaria del teatro ponchielli, che si presta naturalmente a essere vissuto come la “reggia” di penelope e ulisse, per cui l’orchestra è convocata in qualche modo come l’orchestra di corte di penelope. a partire da questo presupposto, che il teatro stesso è il palazzo, il luogo delle nostre vicende, la fabula si sviluppa ai giorni nostri, e forse ulisse è stato abbandonato dai feaci sulle rive del po e non a itaca. perché questa è una storia che ci riguarda tutti, ed è specchio della malattia del nostro tempo…
(ma io non sono né musicologo né regista né musicista né critico teatrale, e prego perciò il benigno lettore aggradire la mia buona volontà, la quale starà attendendo dalla sua dotta penna maggior perfezione in natura del detto genere, perché *inventis facile est adere*, e viva felice).