cinque anni fa, nel 2011, in occasione dei 25 anni dalla tragedia nucleare di cernobyl di cui oggi ricorrono i 30 anni, fui il primo giornalista a entrare dentro la sala controllo nel sarcofago della centrale, in quella sala controllo nella quale furono condotte le operazioni sciagurate che produssero l’esplosione.
queste le prime frasi dell’articolo, diviso in cinque diversi link.
Kiev, ore 7 del mattino, radioattività 0,18.
Viale Hresciatik, la strada principale ed elegante della città. I marciapiedi sono stati spazzati dalla neve. Nei negozi di lusso – l’Italia piace anche qui – si vendono vini italiani, ma si vende vino rosso, della Crimea, anche nei piccoli chioschi (kiock) delle strade: la medicina popolare ucraina, leggenda moderna che non si sa da dove nasca, dice che il vino rosso previene gli effetti della radioattività. “Come quella volta: ci dissero di bere vodka”, ricorda una donna. La vodka, rimedio delle campagne e delle mense operaie contro tutto; vodka contro influenza, foruncoli, scabbia e vodka contro il cancro alla tiroide da contaminazione radioattiva.
Si passa il Dnepr gelato, con la gente che scava i buchi nel ghiaccio per catturare qualche carpa affamata.
Statale verso nord, ore 7,45, radioattività 0,14.
Nevica leggero. Per circa 160 chilometri boschi di betulle spoglie, case, qualche fabbrica, sterpaglie, campi duri di gelo. La temperatura è tra i meno 6 e i meno 10. È la strada per Cernobyl, verso il confine con la Bielorussia.
Clima grigio chiaro, neve grigia dura a terra, automobili sporche del fango salato e grigio sparso sulle strade, cemento grigio, cielo basso e opprimente.
“Era grigio anche il sole, in quei giorni d’aprile. Un fenomeno stranissimo, non avevamo mai visto prima il sole grigio, né l’avremmo più visto dopo”.
In mezzo alla campagna c’è un posto di blocco. I gabbiotti dei poliziotti, i cartelli di pericolo, una sbarra taglia la strada.
È l’ingresso alla zona di esclusione.