care ferrovie,
(e intendo per ferrovie le varie articolazioni della società ferrovie dello stato, comprese società come grandi stazioni e così via),
la mia soglia di tolleranza è stata superata e d’ora in poi prenderò il treno con estremo fastidio, e solamente quando non avrò alternative.
prendere il treno non è più un piacere.
no; non voglio descrivere le carrozze istoriate dall’uniposca; non gli afrori che promanano dalle ritirate guaste. non mi interessano le porte incastrate, e le poltroncine gualcite dalle piedate.
ho sempre amato questo mezzo di trasporto, per ciò che è, e per ciò che rappresenta (per esempio qui racconto una storia della metà dell’800, quando la paura del treno scatenava rivolte e sabotaggi simili a quelli dei tempi d’oggi).
ma lo state trasformando, care ferrovie, in un’altra cosa.
state togliendo al treno la sua natura.
vi fingete compagnia aerea
da anni so che avete, care ferrovie, il programma di far somigliare le frecce (frecciarossa, frecciabianca, frecciargento e quanti altri colori ne offrirà lo spettro cromatico) agli aeroplani. e di farne società separate (a partire da frecciarossa) per quotarle gradualmente in borsa.
l’aereo è il vostro benchmark.
il benchmark delle ferrovie dello stato dovrebbe essere il treno, e invece è l’aereo.
e state trasformando le stazioni, con la loro personalità ricca, in banali anonimi aeroporti.
mettete i cancelli alle stazioni
nelle stazioni state mettendo i cancelli. i tornelli.
accade a milano centrale, dove sono già state istallate le porte a vetri, e lo state facendo a torino porta nuova, firenze santa maria novella, roma termini con le transenne temporanee. e poi via a chiudere e transennare le stazioni successive.
chiudete l’accesso ai binari, e per avvicinarsi alle banchine bisogna mostrare il biglietto a impiegati. chi non ha il biglietto, affaracci suoi.
già oggi è così.
care ferrovie, state cancellando un secolo e mezzo di arrivi trafelati per saltare sul locale al fischio del capostazione;
state cancellando un secolo e mezzo di addii senza fine davanti alla porta della carrozza.
è per la sicurezza, dite.
o certo, per la sicurezza: lo stesso motivo per cui gli aeroplani – una volta si entrava in aeroporto, si comprava il biglietto e lo si faceva vedere alla hostess sulla scaletta – ci tolgono una fettina di libertà con infiniti controlli di utilità modesta.
la cui vera utilità mi pare sia soddisfare il desiderio di controllare gli altri.
per fare una strage, è sufficiente un certificatissimo pilota oppresso da una sindrome da erostratismo (clicca qui).
queste regole di sicurezza possono essere superate con un nonnulla. perfino negli aeroporti: in questo articolo (clicca qui) l’amico e collega mario cianflone racconta come s’è imbarcato senza né carta d’imbarco né carta d’identità.
in una stazione è ancora più facile. è sufficiente acquistare un biglietto per villapizzone (dove ieri capotreno e macchinista sono stati feriti gravemente a colpi di coltellaccio) e passare tranquilli i varchi, per poi compiere qualsiasi nefandezza.
poi in questi mesi alcune stazioni sono state adibite a spazio temporaneo di accoglienza di profughi. concedere ai disperati questi spazi è un atto di grande umanità; io non ho dubbi che questa massa di persone infelici non rappresenti alcuna minaccia alla sicurezza, tuttavia capisco che a molti viaggiatori costoro possano suscitare paura o fastidio.
chiedete il nome e il viaggio
quindi, due controlli ai biglietti, il controllore ma, prima, una persona che pretende di sapere dove vado.
anzi, tre controlli.
perché nella vostra aeroportizzazione, care ferrovie, volete arrivare ai biglietti nominali, e non più anonimi.
io non voglio che qualcuno mi chieda dove vado e che faccio.
se voglio farlo sapere, lo dico.
il motivo per cui prendo il treno sono eminentissimi affaracci miei.
e le stazioni?
va salvata dalla fregola da bazar almeno quella meraviglia architettonica che è la stazione di santa maria novella (eccone un’immagine storica), sottoposta ai vincoli più severi (a parole) il progetto del ’33-’34 di michelucci e del gruppo toscano è un capolavoro dell’architettura che ancora oggi è di una modernità imbarazzante. le immagini del ’35 e del ’36 parrebbero scattate ieri se non fosse che davanti alla stazione si vedono posteggiate le fiat balilla.
imbruttite le stazioni
ma già la stazione centrale di milano (stacchini 1925-1931) è stata snaturata.
certamente, l’atrio delle biglietterie ha cambiato natura; soppresse le scale mobili che dall’atrio portano alla galleria di testa, i viaggiatori devono percorrere una gincana fra i negozi dell’ammezzato, con la stessa idea che costringe chi entra nell’area di servizio a passare davanti ai prosciutti al pepe, ai modellini di elicottero, alle felpe sportive e ai biscotti allo zenzero.
ma questo è bisnis.
gli spazi immensi prima non usati sono stati occupati da zara, feltrinelli e tanti altri negozi.
ciò che a mio parere rende insopportabile la configurazione attuale della stazione centrale è l’invasione continua, e graduale nel tempo, di padiglioni, gazebo, edicole, cancelli.
ogni poche settimane, care ferrovie, aggiungete una nuova istallazione. che si somma alle precedenti.
la galleria di testa, la testata dei binari e gli altri spazi sono stati invasi.
ogni spazio libero è stato coperto da tabelloni pubblicitari.
il gate del fast del pack del break. i nomi beffardi
a milano (e temo presto anche nelle altre stazioni che verranno chiuse da cancelli) gli ingressi riservati ai viaggiatori muniti di biglietto si chiamano gate.
proprio così. non entrate o uscite: gate.
al cancello c’è il cartello luminoso:
gate “a”
controllo titoli di viaggio.
diobòno, è scritto davvero “titoli di viaggio” invece di biglietti.
temo il giorno in cui chiamerete “titoleria di viaggio” la biglietteria.
nel treno passano gli addetti della carrozza bar e distribuiscono posto per posto un volantino, come una volta c’erano i mendicanti che mettevano il biglietto “sono un povero sordomuto” e prima che il treno chiudesse le porte ritiravano i bigliettini e qualche limosina.
il volantino della società che gestisce le carrozze bar e le carrozze ristorante, che si chiama itinera, propaganda il fast pack dello snack per un break. è il cestino da viaggio a prezzo scontato.
il frecciabianca del ’39
non prendetemi in giro, care ferrovie, con il nominalismo che contraddistingue i parolai. quello stesso nominalismo da parolai che ha indotto, care ferrovie, a far sparire anni fa gli accelerati, i diretti, i direttissimi, gli espressi e i rapidi nella speranza che i clienti si convincessero del servizio migliore perché oggi si chiamano regionali, interregionali, regionali veloci e così via.
anche le poste avevano fatto lo stesso processo nominalistico: avevano chiamato posta prioritaria la posta normale, quella che arriva in due o tre giorni dalla spedizione, perché i tempi medi di consegna erano peggiorati.
miracoli: una lettera ordinaria consegnata da venezia a milano in tre giorni. un espresso in un giorno. sono i dati della serenissima compagnia dei corrieri veneti di fine ‘400 che consegnavano le lettere portandole a cavallo. i procaccia dello stato pontificio consegnavano una lettera da roma a napoli in tre giorni. nel 1586 una lettera impostata a innsbruck veniva consegnata a venezia in 75 ore.
non prendetemi in giro con i nomi; non me la bevo.
stazione di venezia, agosto 1939, ore 18,15. signori in carrozza, lo sbuffo di vapore nascondeva per qualche istante il capostazione con il berretto rosso e le porte si chiudevano con rumore una dopo l’altra. il rapido (carrozze di prima, seconda e terza classe) arrivava a milano sotto i voltoni di acciaio e vetro della stazione centrale alle 21,15. tempo di viaggio, 3 ore esatte.
non prendetemi in giro con la frecciargento in alta velocità, care ferrovie.
nell’estate del ’39 una littorina etr 212 da gara aveva coperto i 314 chilometri tra firenze e milano in un’ora e 55 minuti.
non prendetemi in giro con il gate dei titoli di viaggio con lo snack per il break del bonus.
i vostri treni corrono, sono buoni, danno un servizio apprezzabile e questo va valorizzato: invece ho superato la mia soglia di tollerabilità per tutte le altre cose che volete vendermi, care ferrovie.
addio al treno
come nella storiella della rana bollita, care ferrovie dello stato, io salto fuori dalla vasca calda prima che sia troppo calda.
non voglio persone che mi chiedano dove vado. non voglio tornelli per entrare in stazione. non voglio pubblicità che nasconde i capolavori dell’architettura. non voglio labirinti fra negozi. non voglio gate, break, hudson news e snack.
d’ora in poi mio malgrado rinuncerò al treno. userò l’auto la moto l’aereo.
se non avrò alternative, prenderò treni da stazioni che siano stazioni e non da stazioni che fingono di essere aeroporti anonimi; prenderò treni che puzzano di piedi e con i finestrini rabescati di uniposca; comprerò i biglietti dal bigliettaio o alla macchinetta, senza che mi venga chiesto il nome.
voi, care ferrovie, avete tutto il diritto di trasformare in bisnis il bene che avete ricevuto dallo stato.
ormai i treni sono cosa vostra, e non più cosa nostra che formiamo lo stato.
ma anche io ho il diritto di non ricorrere più al vostro servizio.